domenica 20 novembre 2016

Western, Sex, Rock and Horror, il libro Western 2.0 di Stefano Jacurti -...

STEFANO JACURTI- WESTERN SEX ROCK AND HORROR- INTERVISTA CON EMANUELE CARIOTI PER D STAMPA

martedì 1 novembre 2016

TERESIO SPALLA REGISTA E SCENEGGIATORE RACCONTA IL PERCORSO NEL WESTERN DI STEFANO JACURTI- DA "SCENARIO" ON LINE

L CAMMINO DI STEFANO JACURTI SULLE PISTE DEL WEST
DI TERESIO SPALLA





Il cinema western classico è morto insieme al cinema classico tout court

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Anche se alcuni cinefili appassionati del tormento testicolare lo ritengono un capolavoro, ho sempre ritenuto, da quando uscì, guarda caso proprio all’inizio degli anni Ottanta, che la sua pietra tombale sia stato I cancelli del cielo di Michael Cimino che, col suo clamoroso insuccesso, dimostrò che il pubblico, in primo luogo quello americano, era stanco degli stereotipi del cinema di Frontiera.

Infatti in quella pellicola Cimino non aveva fatto altro che mescolare tutti i luoghi comuni, fritti e rifritti, del western classico a un estetismo uggioso e annoiante. Ancor di più nella versione finalcut dove si dimostra che non sempre i tagli che i registi compiono per la prima uscita migliorino un prodotto destinato alla narcolessia estetica.

C’è chi pensa che i cieli sterminati attraversati da ammassi di nubi trascinate dal vento nervoso attraverso la prateria con accompagnamento di chitarra gagnolare se li sia inventati lui. Gli ignoranti cinefili dovrebbero sapere che vi sono stati almeno una ventina di film con le stesse componenti (ma il commento musicale era decisamente più trascinante) tra cui un paio di capolavori.

Comunque sia, dopo I cancelli del cielo, il western cinematografico si è spento nella soppressione degli ideali del ventesimo secolo. Era iniziata l’era della deregulation, anche culturale. Quindi non si vedeva perché un genere basato sulla speranza di una terra promessa, di un mondo nuovo a riscatto delle ingiustizie e della povertà, dovesse aver posto in un mondo dove la ricchezza sfrenata diventava nuovamente l’indice su cui regolare il senso del coraggio, dell’amicizia, della giustizia anche sociale in un rinnovato paradiso terrestre.

Dopo di allora il western - nonostante gli ormai caduchi richiami ad una resurrezione in cui si tasta la banalità di certi giornalisti al soldo delle società di distribuzione o, cosa tristissima, al soldo di nessuno…per puro conformismo – è stato un avvicendarsi di casualità che, a ritmo quinquennale circa, rispolveravano un genere di cui i registi e gli sceneggiatori, specialmente gli attori, hanno perso il senso anche nel dialogo e nella postura.

C’era chi sperava – ed io ero tra questi insieme a Tullio Kezich – che, trascorsa l’epoca della leggenda, si passasse a quella del racconto veracemente storico. Ma, a parte qualche film televisivo degli anni Novanta, in cui si è trattato di fatti poco o niente conosciuti, non s’è visto altro del genere.

Oltre tutto realizzato con quella piattezza sciatta tipica del prodotto tv statunitense checché ne dicano quelli che pensano, o scrivono sotto dettatura, che i trecentotrenta minuti delle cinque puntate di Mildred Pierce siano meglio dei centoundici in un unico spettacolo di Il romanzo di Mildred, un film che ancora oggi tiene ancorato alla sedia qualsiasi spettatore al quale non abbiano fatto credere che i film in bianco e nero, per di più grandi successi degli anni Quaranta, siano dannosi come l’amianto e il solfato di alluminio.


Certamente qualche film di valore c’è stato. Un esempio particolare è L’ultimo dei moicani di Michael Mann, il primo caso di un adattamento del celebre romanzo di Fenimore Cooper depurato dall’implicito razzismo verso i pellerossa e in chiave di un’avventura appassionante e storicamente ineccepibile. Resta però un mistero come, nella stessa atmosfera produttiva, Walter Hill abbia diretto, due anni dopo, Wild Bill, più che un film un cadavere vivente che spruzzava intellettualismo purulento da tutti i pori. E di esempi simili, referenti ad eroi della Frontiera tante volte cantati meglio, ce ne sono stati altri.


E poi, sempre in quel periodo, ha dato il suo ultimo meglio nel genere Clint Eastwood. Gli spietati, pur con alcune caratteristiche che denunciano il richiamo ad uno spettatore ben diverso da quello classico, è un film ragguardevole. Ma a me piacciono anche le due pellicole che l’ex attore della nobile serie I cavalieri della prateriaha ambientato nell’era contemporanea : Bronco Billy e Honkitonk Man, due autentici gioielli di nostalgia e gusto malinconico per chi la battaglia del west l’ha persa, come tutti noi che abbiamo amato, fin da bambini, tutto quello che ne era prodotto : dagli winchester giocattolo ai soldatini di pasta di gomma, dai fumetti di Bonelli ai libri di Mino Milani, dai film a colori che vedevamo al cinema a quelli in bianco e nero che passavano in una tv molto più seria e moderna di quella di oggi.


Ad un certo punto, negli anni Novanta, è sembrato che qualcosa rispuntasse tra le nuvole chiare. Mi riferisco alla serie Dr.QuinnMedice Woman (da noi impropriamente intitolata La signora del west) che, pur in un contesto apparentemente dedicato a Luisa MayAlcott, raccontava il west vero, giorno per giorno, con tante particolarità che una volta la censura avrebbe tagliato compresa l’attenzione al segregazionismo non solo verso gli indiani ma anche gli immigrati dell’ultima ora, gli afroamericani, la condizione
della donna, l’anticonformismo in genere.

Ma si trattò di un esperimento unico. Se oggi la tipologia del western tv è quella di Deadwood dove il buono e il cattivo si fondono in un crogiuolo di violenza ispirato più agli aspetti meno simpatici del western europeo, beh, grazie, ne faccio a meno, preferisco di no.


Sta di fatto che quest’atmosfera senza speranza - senza frontiere da attraversare, senza dignità da conversare a costo della vita e in nome di un sogno di libertà – ha contaminato tutto. Non discuto con chi ama (ma vorrei sapere quanti sono veramente tra gli abitanti della disgraziata penisola)I soprano o House of cards ma contesto prodotti dove il peggio finisce necessariamente per diventare simpatico e dettare i gusti degli spettatori. Nel mefitico mondo politico rappresentato nel secondo esempio non c’è posto per Bernie Sanders. E questo particolare sì che puzza.


Comunque, non è statoDeadwood(che, nonostante i soliti gazzettieri narranti minchionerie convenzionali, non è stato poi quel grande spettacolo di richiamo nemmeno negli Usa : tre sole stagioni di soli dodici episodi l’una con un abbandono costante già dalla seconda) a bilanciare le tendenze.


E’ stata l’atmosfera di questi tempi infami a contaminare i pochi film che ancora si fanno (tralascio qui, volutamente, il discorso su Tarantino perché il personaggio meriterebbe un discorso molto complesso che non è qui il caso) e le graphicnovel, i fumetti una volta legati a lettori che invecchiavano con i loro amati personaggi, nonché l’andamento dei film per la tv che hanno smesso, tranne alcuni casi sporadici, di cercare di raccontare la Storia.


E se quest’atmosfera ha anche partorito una letteratura nostalgica e depressa, per quanto di valore, non bisogna ingannarsi. Anche il crepuscolo alla fine finisce. E se c’è stato un intero sottogenere cinematografico e letterario negli anni Settanta – definitivamente concluso proprio con un film di Clint Eastwood : Il cavaliere pallido - non è che Cormac McCarthy – e scrittori analoghi e succedanei –riflettono più la malinconia, ripiegata su se stessa, del west del ventunesimo secolo che dell’epoca delle grandi migrazioni, dei carri conestoga e delle epiche transumanze del bestiame ?


Chi scrive non detesta a priori le contaminazioni tra i generi ma confessa di provare un profondo senso di disagio verso i minestroni di horror e western. Anche quando fatti molto bene (è stato il caso, qui da noi, di una saga a fumetti durata tredici anni di cui gli ultimi arrancando parecchio nonostante i disegni magnifici e l’episodica intelligente) più che mandare il profumo della prateria emanano l’odore fetido del calderone delle streghe di Macbeth, ovviamente senza Shakespeare che pur dal western fu saccheggiato anche lui.


Però ci sono le eccezioni e queste sono costituite dal lavoro di Stefano Jacurti il quale, conoscendo a menadito il western classico ed amandolo come solo pochi oggi sono in grado, ha dedicato questi ultimi vent’anni ad una nuova esplorazione del west e del western servendosi anche di tutte le combinazioni possibili.




Si può dire infatti che Jacurti abbia giocato a scacchi con tutti gli elementi topici del genere – e di tutti i generi moderni in genere – riuscendo ad imbastire un gioco tanto spericolato quanto avvincente, usando tutte le formule permesse. Ma senza perdere mai una pedina.


Verrebbe da chiedersi chi giocasse dall’altra parte. Io dico un essere informe e moralmente deforme che è, oggi come oggi, la minaccia di ogni regista o scrittore, artista visivo o architetto, storico o antropologo. Quest’essere è la morte, la morte dei generi come coacervo delle passioni di tante generazioni che le nuovissime generazioni sfuggono senza capire che così vanno verso un precipizio talmente profondo che non se conosce il fondo.


Stefano Jacurti è troppo intelligente per non sapere di essere l’AntoniusBlock delle idealità perdute in un’epoca dove il livello di fede e moralità non è diversa da quella dei contadi degradati e minacciati dalla peste che il cavaliere e il suo scudiero incontrano prima dell’ultima danza sul ciglio della collina. Il liberismo dell’immaginario incombe sul crepuscolo della modernità.

Eppure, pur essendo ben cosciente di tutto ciò, egli si esprime da tanti anni attraverso il western da esserne diventato il principale cantore europeo sebbene l’attuale stato mafioso e conchiuso del cinema come della letteratura italiana ne abbia impedito una diffusione maggiore oltre i confini del nostro morente Paese. Anche se i premi e i riconoscimenti non sono mancati, è bene dirlo, anche in nazioni più civilizzate e meno scadenti della nostra.


Cominciò, ed in quelle occasioni lo conobbi se la mia memoria non s’inganna, curando retrospettive e dibattiti nella Roma non del tutto distratta dei primi anni Novanta. In quel contesto riuscì a realizzare uno spettacolo – Golden City – che ebbe un suo richiamo nel ’95 al teatro Furio Camillo per poi essere ripreso al teatro dell’Orologio qualche anno dopo.


Apprezzai molto quel suo sforzo che allora doveva sembrare impossibile anche a lui.


Io stesso, con Massimo Costa e Maria Teresa Telara, avevo allestito produttivamente, due anni prima, Indians – il testo di Arthur Kopit a cui è ispirato il western più iconoclasta (fino all’autodistruzione di se stesso) degli anni Settanta : Buffalo Bill e gli indiani di Robert Altman–ma all’interno di una rassegna multimediale della quadriennale d’arte sull’American west, con una vibrante traduzione di Kezich e una accurata regia di Piero Maccarinelli che ebbe a disposizione, oltre al protagonista Aroldo Tieri (nei panni di Buffalo Bill !) i migliori attori dell’associazione che nominalmente produceva lo spettacolo.


Lui invece, per conto suo, con una buona compagnia d’interpreti, era andato ben oltre la mise en éspace, costruendo uno spettacolo corroborante, fervido, genuino, che dimostrava come, volendo, a teatro si possa fare di tutto. Ricordava infatti un grande successo di Gino Cervi che purtroppo io vidi solo alla tv ma almeno quando la tv faceva una prosa straordinaria : Del vento tra i rami delsassofrasso (“western da camera” di René De Obadia) dove quel nostro grande attore non esitava ad indossare, con dignità e saggia ironia, la camicia a quadretti e il cappello a falde rialzate insieme a Elsa Merlini e Ferruccio De Ceresa.


Mi convinsi allora, sul suo esempio, che il western poteva proprio a teatro trovare una casa accogliente e pur meno esigente del pubblico degli schermi. Infatti per anni ho pensato a un testo mio sul circo di Buffalo Bill - ma senza toccare Kopit e la demistificazione forzata - con Giorgio Albertazzi come protagonista. E Albertazzi era davvero capace di salire a cavallo sulle tavole di un palcoscenico circondato da indiani e ballerine da saloon.


Avevo anche maturato un’equipe di consulenti. A parte il caro Tullio, Claudio Gorlier e Vittorio Zucconi che, aspetta che ti riaspetta, non furono poi nemmeno consultati. Infatti non se ne fece mai niente, un po’ per la meschineria dei suoi agenti e un pò per i continuativi impegni dell’attore il quale, quando riuscii a raggiungerlo con sei mesi davanti, era ormai troppo anziano per sostenere lo sforzo fisico di uno spettacolo che, per gli impresari, era uno sforzo soprattutto economico su cui nessuno voleva scommettere senza di lui.


Invece Stefano Jacurti non s’era arenato affatto ed era giunto a scrivere anche per la letteratura e bene, molto bene. Il suo primo libro, composto di racconti che profumano veramente dell’erba dei grandi pascoli, aveva titolo Pensieri del west.


Seguirono l’elegiaco e struggente Il baule della prateria e poi un nuovo risveglio di contenuti e idee frizzanti e stimolanti : Avreivoluto essere ucciso da Clint Eastwood e Bastardi per stirpe che sembrava essere il punto più alto della sua ricerca con, questa volta, un’audace contaminazione fatta con grande sincerità e franca passione.


Però, dopo e durante queste sue premiate escursioni narrative, egli riuscì in quello in cui, da quarant’anni, nessuno è più riuscito. Produsse, diresse (con Emiliano Ferrera) e interpretò due film mediometraggi di non poco conto : uno girato nella neve – Infernobianco – e un altro in un ovest ricostruito con inusuale sapienza – Bastardi per stirpe – che gli hanno portato ancor più riconoscimenti (basta citare il premio come miglior cortometraggio straniero al Gathering festival di Hudson in Ohio) premi, e anche uno zoccolo duro di spettatori che, credo, lo rassereni più dei cinefili che, sui suoi film, hanno detto tante cose giuste ma forse non comprendendo ciò che solo chi conosce veramente il west – la sua storia e la sua leggenda – può sapere.

Il suo personaggio, barbuto e con lo stesso cappello (tutti i grandi westerner del cinema portavano abitualmente lo stesso copricapo, di film in film) che della sua figura se n’è impadronito anche il mondo più serio e attento del fumetto.




Ora egli si presenta al pubblico (ci sarà una doviziosa presentazione ad un piccolo ma serio e motivato festival sulla riviera ligure, a Santo Stefano al mare, il 30 luglio, sesta edizione della rassegna Mostriamo il cinema, a cui succederà la proiezione di Se il mondointorno crepa) con un'altra raccolta di racconti che non ribalta ma rimette in gioco tutti gli elementi che egli aveva scombinato e riordinato sulla scacchiera del suo talento e della sua fedeltà a un tema e a una tradizione che, trattati da lui, meriterebbero ancor più attenzione.


Si chiama Western sex rock and horror (Edizioni Emil) e, come dice il titolo stesso, comprende , all’interno di storie western, tutti gli elementi che erano già presenti, ora fortificati ed ora rarefatti, nei suoi romanzi precedenti e soprattutto nei film.





C’è il sesso, c’è il rock, e c’è il cinema di paura, quel tipo di cosa che quelli come me preferiscono chiamare horror anche se si rendono conto che, per le generazioni più giovani, l’horror è quello con Boris Karloff e Vincent Price mentre il cinema di paura è quello di Dario Argento e surrogati americani con deviazioni nello splatter che, in fondo, conferma la vocazione di un certo western, anche in epoca classicissima, ad essere minaccioso e sanguinolento come la vita di stenti dei pionieri nell’attraversare i più aridi e inospitali altopiani del sud ovest.


Il rock, in questo libro, rappresenta qualcosa che personalmente mi ricorda il jazz per la rottura degli schemi musicali melodici e il ritmo sincopato. Ma è un jazz che ha passato le acque tra Bob Dylan, Johnny Cash e Bruce Springsteen, si è iniettato di pop e ha sparato pallottole di folk. E, non essendo un critico musicale, sono certo che queste ultime righe mi saranno perdonate dai puristi.


Si tratta di una rottura che rende i racconti di Stefano Jacurti ancor più affascinanti. Infatti nessuno precipita mai nel buio assoluto o, se accade, non è mai abbastanza buio e mai abbastanza assoluto. Perché l’Autore tende ponti, stringe corde, tira i filamenti di cuoio, aggrappa i personaggi alle rocce più impervie, gli incatena e li scioglie dal giuramento con l’astuzia e la bravura del letterato d’alta professione.


Potremmo anche pensare che, in Western sex rock and horror, egli abbia abbandonato la scacchiera dell’AntoniusBock delle praterie per stendere quelle passerelle di canapa e spago tra un personaggio e l’altro, tra una trama e l’altra, tra un mondo e un altro.


Perché Stefano Jacurti costituisce l’anello di congiunzione tra un cinema western di oggi e quello di ieri, tra una storia che solo oggi ha motivo di sussistere, perché nel passato sarebbe stata rifiutata, e la storia che ha siglato tutto il cinema western dal 1903 al 1980 circa, nel suo secolo di splendore e di furore.


La capacità di Stefano Jacurti non è solo nel saper essere, egli stesso, quel gancio che ha reso inossidabile tra presente e passato, ma nel saper raccontare, con la penna e con la macchina da presa, storie che nessuno ha osato congiungere, nemmeno in America.


E’ uscita da poco una raccolta di racconti dello scrittore Percival Everett, nato in Georgia ma che ambienta le sue storie nel Wyoming, la terra delle guerre per i pascoli – In un palmo d’acqua (Nutrimenti editore) – dove, mi si lasci dire, racconta di un west molto femminista e molto afroamericano che, purtroppo, non è mai esistito.


Venendo dagli Stati Uniti, con probabilmente un bravo agente alle spalle di qua e di là dall’oceano, Percival Everett ha già ottenuto recensioni dove tutti gli scrittori italiani vorrebbero comparire e spesso non riescono per i soliti giochi di potere tipicamente italiani. Non è affatto un cattivo narratore anche se non è il nuovo Brett Harte che si decanta. Dice anche cose molto banali come “L’arte è l’arte. Un romanzo è un romanzo e riguarda le persone che lo abitano : possono essere bianche, nere e asiatiche”.


Ebbene, i racconti di Stefano Jacurti (che la banalità fugge per principio), anche se non posseggono un progetto multirazziale (ma quando mai il west è stato multirazziale? Semmai è stato il teatro di un cruento scontro tra razze, questo sì), anche se non vengono dagli Usa, hanno la freschezza e la dolcezza, la durezza e l’affanno, il coraggio e la sfida, quel senso poetico, di chi, partendo da una città italiana, ha saputo costruire, in pochi anni, un universo prezioso e necessario, raffinato e crudele che travalica gli orizzonti, attraversa i territori più disagevoli, gioca a scacchi con la morte insidiosa e getta ponti per chi, del western, voglia ancora capire il messaggio di fiducia e di disillusione.